CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 13/10/2014 Scarica PDF

Un approccio di analisi economica del diritto sulla crisi d'impresa: l'absolute priority rule statunitense e le sue deroghe giurisprudenziali. - Prospettive di riforma del dato normativo italiano

Federico Marengo, Avvocato


Sommario: Premessa. – Problemi e obiettivi del contributo. 1. – Metodologia applicata: l’analisi economica delle norme. 2L’absolute priority rule nel diritto statunitense. 3 – Riflessioni per un mutamento dell’assetto dispositivo italiano.

 

 

 

Premessa. – Problemi e obiettivi del contributo

L’idea di elaborare questo lavoro, a nove anni dall’inizio del processo di riforma della disciplina del fenomeno della crisi di impresa, nasce dalla esigenza di trarre un primo bilancio con particolare riferimento alle norme dettate in materia di tentativi per favorire la composizione della crisi nella prospettiva della continuità della attività economica.

L’evidenza empirica mostra un aumento più che raddoppiato rispetto all’anno 2008 del numero dei fallimenti dichiarati dai tribunali italiani, nonché una percentuale notevole di insuccessi nelle operazioni di risanamento delle imprese attraverso il ricorso ai rimedi apprestati dall’ordinamento giuridico: concordati preventivi e accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis, l.f.. Senza poi voler infierire in questo contributo sulla abrogazione tacita di un intero istituto, quantunque perfettibile, della transazione fiscale e previdenziale ex art. 182 ter, l.f., configurante uno dei più importanti elementi innovativi voluti dal legislatore della riforma.

Le ragioni del crescente numero dei fallimenti e dell’insuccesso dei risanamenti sono molteplici e dipendono da circostanze esogene e da circostanze endogene al sistema normativo sulla crisi d’impresa.

Le variabili esogene vanno ravvisate nelle numerose criticità che interessano la struttura burocratica, culturale e macroeconomica del sistema Paese e delle sue interrelazioni con le vicende che interessano gli altri Paesi: criticità che, inevitabilmente, anche in ragione della congiuntura economica di recessione nazionale e di recessione e stagnazione internazionale, si riflettono sui comportamenti dei singoli operatori, imprenditori, consumatori ed intermediari finanziari, in un clima di generale incertezza. Si tratta di variabili che dal sistema normativo non possono che essere considerate come variabili date, e in quanto tali da esso non disciplinabili, richiedendo primariamente modifiche che travalicano i confini dell’economia e del diritto per interessare interventi interdisciplinari sul piano sociologico, filosofico e politico.

Le variabili endogene vanno invece ravvisate nella inadeguatezza del dato positivo, ancorché riformato, all’atteggiamento culturale sia dell’imprenditore/debitore medio, per sua vocazione naturale ottimista e reticente, sia del creditore medio, per sua fisiologica propensione portatore di un interesse egoistico in gran parte confliggente con l’interesse alla salvaguardia dell’attività economica del proprio debitore.

Da questo innegabile atteggiamento culturale ne discendono come corollari comportamentali le tendenze, (i) da parte dell’imprenditore medio, di ricorrere al concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione dei debiti allorché la situazione finanziaria sia già gravemente pregiudicata, e dunque, quali rimedi utilizzati consapevolmente per evitare o ritardare il fallimento di una realtà economica già decotta, e (ii) da parte del creditore medio, anche – ma non solo – per la cronica sfiducia nei confronti di piani di risanamento predisposti perlopiù unilateralmente dall’imprenditore, di adottare comportamenti inerti, disinteressati e talvolta – consapevolmente o inconsapevolmente – ostruzionistici alle sorti recuperatorie della impresa debitrice.

L’effetto combinato di queste due inclinazioni attitudinali, unitamente agli altri fattori esogeni, è un numero crescente di fallimenti e di risanamenti infruttuosi, con ricadute negative in termini di perdita di competitività dell’intero sistema Paese per il venir meno di professionalità e attività produttive, proprio in un momento in cui l’attuale contesto mondiale è oggetto di profondi mutamenti – sempre più crescenti in prospettiva – nei suoi assetti geopolitici ed economici.

Pertanto alla luce di dati empirici preoccupanti, continuare a professare l’ovvietà della necessità di una emersione tempestiva della crisi nonché della necessità di una cooperazione dei creditori al salvataggio del debitore, confidando implicitamente in un processo culturale rivoluzionario – nell’accezione più nobile del termine – di adeguamento delle attitudini comportamentali degli imprenditori e dei creditori al dato normativo, significa attendere mutamenti – peraltro ontologicamente snaturalizzanti – che non si realizzeranno mai, ovvero per la realizzazione dei quali saranno richiesti tempi lunghissimi. La gravità della situazione, invece, impone interventi immediati, gli unici peraltro percorribili, di adeguamento del tessuto normativo alle caratterizzazioni comportamentali degli operatori, così da sterilizzarne le limitazioni testé riferite favorendo l’interesse dell’imprenditore ad una reale – e non soltanto proclamata –  emersione tempestiva della crisi d’impresa in una ottica di tentativo di risanamento della stessa, e favorendo altresì l’interesse del creditore al suo soddisfacimento attuale e soprattutto prospettico, così da neutralizzarlo da possibili condizionamenti emozionali tali da inficiarne il suo contributo nelle operazioni di salvataggio.

   

1. – Metodologia applicata – l’analisi economica delle norme

Lo sforzo che si intende compiere con questa ricerca interdisciplinare di diritto ed economia va necessariamente oltre l’attività del giurista puro, per essere condotta secondo l’orizzonte applicativo del giuseconomista nell’auspicato virtuoso tentativo di impiantare l’analisi economica al diritto sulla crisi d’impresa.

In particolare, l’approccio tradizionale del giurista è orientato al presente e al passato, nel suo compito di studiare il dato normativo vigente onde comprenderne il significato ermeneutico con un approccio romanista classico eminentemente esegetico. Scopo del giurista è interpretare la norma giuridica per ciò che è, per ciò che essa esprime in termini di volontà oggettiva del legislatore, ovvero per chiarire la precisa scelta operata dal legislatore nel momento in cui ha deciso di disciplinare una determinata fattispecie. Il giurista non compie scelte, dato che le scelte spettano in via esclusiva al legislatore. Nella prospettiva della Dottrina pura del Diritto elaborata da Kelsen, il giurista è un tecnico della norma positiva emanata dall’Autorità statuale e non deve occuparsi né dei suoi motivi (lasciati al legislatore), né delle sue conseguenze (delle quali si occupa il sociologo), né dei valori ad essa sottesi (spettanti invece al filosofo). Non sfuggono tuttavia tutte quelle disquisizioni dottrinali tese a valorizzare il ruolo del giurista nell’opera di completamento ermeneutico nella scritturazione delle norme prodotte dal legislatore, quali, ad esempio, le dissertazioni in materia di natura retorica del ragionamento giuridico, in tema di precomprensioni dell’interprete, sull’esercizio di rilettura antagonista dei testi legislativi, o in tema di decostruttivismo.

Diversamente, il giuseconomista ha un approccio look forward, è orientato al futuro poiché studia gli effetti del dato normativo vigente onde (i) comprendere l’opportunità o meno di ciò che è, e (ii) offrire al legislatore ciò che dovrebbe essere, ovvero suggerire al legislatore le scelte per la migliore soluzione normativa da adottare tra le diverse possibili alternative praticabili. Ma migliore sotto quale punto di vista? Migliore secondo quale criterio? Migliore perché più giusta? O migliore perché più efficiente? Sul punto si riprenderà a breve.

Nel corso di questi anni vi sono stati vari contributi dottrinali che hanno presentato il nuovo diritto sulla crisi d’impresa come quell’insieme di norme atte a favorire il superamento della crisi d’impresa, quasi come se bastasse o fosse sufficiente osservare pedissequamente il coacervo delle nuove proposizioni normative per risolvere il fenomeno – finanziario, e ancor prima industriale – così complesso e articolato quale è quello della crisi d’impresa. Tali norme, indubbiamente rilevanti e innovative in taluni aspetti, sono regole che delineano i presupposti soggettivi e oggettivi, gli effetti personali e patrimoniali, i ruoli, i poteri e le responsabilità dei protagonisti delle procedure, ma nulla dicono, e nulla potrebbero dire, in ordine alle modalità di risanamento attraverso le quali  conseguire il superamento della crisi d’impresa. Questa errata interpretazione sulla funzione precipua di tali norme, unitamente ad altre motivazioni culturali, ha favorito la presentazione di concordati preventivi e di accordi di ristrutturazione dei debiti perfettamente conformi, sotto il profilo formale, al dato normativo, ma affatto privi del sostrato finanziario ed industriale vera essenza sostanziale di un piano per il risanamento di una impresa in crisi.

Riprendendo dalla domanda testé posta, come impostazione valoriale per il giurista una norma giuridica o una decisione giurisprudenziale vanno preferite ad altre in quanto più giuste e più eque, ancorché più inefficienti, mentre per il giuseconomista una norma giuridica o una decisione giurisprudenziale vanno preferite ad altre non già perché più giuste e più eque, ma in quanto più efficienti.

Ai concetti di equità e giustizia tipici del giurista si contrappone il concetto di efficienza tipico del giuseconomista.

L’equità è un valore eminentemente politico. In altri termini, il tema circa le modalità attraverso le quali può compiersi la distribuzione/redistribuzione del benessere è un tema ontologicamente politico, giammai giuridico,che pertanto deve riguardare esclusivamente la Politica e, dunque, le scelte pubbliche del legislatore. Il giurista, che nell’interpretare il dato normativo assume quale criterio guida il proprio valore di equità, sostituisce il proprio giudizio di valore sull’equità al giudizio che sul valore di equità ha già espresso l’unico soggetto a ciò legittimato: il legislatore.   

La giustizia è un valore soggettivo, e dunque relativo, dato che, soprattutto nei Paesi di civil law dove non esiste il principio del precedente giudiziario vincolante, vi potrebbero astrattamente essere tante nozioni di giustizia quanti sono i giudici. Difatti l’applicazione del diritto per la risoluzione di una medesima controversia può condurre a diverse decisioni da parte dei vari giudici investiti della causa: dalla dottrina è stato elaborato il distinguo giustizia formale/razionale e giustizia sostanziale/naturale e ogniqualvolta si è in presenza di una decisione giurisprudenziale in cui la giustizia formale non attua altresì la giustizia sostanziale si è in presenza di quel fenomeno qualificato con il sintagma crisi del diritto.

Ragione per cui il giurista che, nell’interpretare la scelta del legislatore alla ricerca della voluntas legis, segue i canoni della giustizia e della equità perde obiettività e neutralità ingerendosi in una attività di produzione del diritto che non gli è propria, ma che appartiene esclusivamente al legislatore.

Diversamente, l’efficienza è un valore oggettivo, e dunque assoluto, dato che nella scienza microeconomica sono state elaborate al più soltanto due nozioni di efficienza, quella sviluppata dall’economista Pareto e la sua variante dei due economisti Kaldor ed Hicks. Una norma è inefficiente quando consente di raggiungere un determinato obiettivo sociale ad un costo sociale più alto di quanto non lo consenta una possibile alternativa. Nella prospettiva dunque del giuseconomista ogni norma, ogni scelta del legislatore va studiata, va analizzata in termini di comparazione tra i costi e i benefici sociali che da essa possono derivare, (i) onde comprendere se sia o meno efficiente (la c.d. analisi economica positiva o descrittiva) e (ii) onde suggerire al legislatore la soluzione più efficiente (la c.d. analisi economica normativa o precettiva), avendo bene a mente quali siano i soggetti perdenti e quali siano i vincenti di ciascuna soluzione.

Sicché, venendo all’oggetto di questo lavoro, se da un lato la prospettiva statica della analisi positiva consente di descrivere l’attuale sistema delle regole giuridiche in materia di risanamento delle imprese in crisi come un sistema del tutto inefficiente, dato che i costi sociali sostenuti, in termini di distruzione di valore (a causa di fallimenti e infruttuosi risanamenti), sono ben al di sopra dei benefici sociali in termini di soddisfazione del ceto creditorio, occorre verificare, nella diversa prospettiva dinamica dell’analisi precettiva se vi sia, e quale sia, la soluzione normativa più efficiente da suggerire al legislatore, tale da creare i presupposti procedurali per consentire il superamento delle crisi di impresa.

In questo lavoro di analisi precettiva si procederà anche con una comparazione con il diritto statunitense.

   

2. L’absolute priority rule nel diritto statunitense

Negli Stati Uniti una società che non è in grado di adempiere le proprie obbligazioni, senza che sia necessariamente richiesto lo stato di insolvenza[1], purché tuttavia abbia ancora dei buoni fondamentali economici[2], può, ai sensi di quanto prescritto dalle norme di cui alle sections da 1101 a 1200 contenute nel chapter  11 (dalla rubrica “Reorganitation”) del title 11 (recante la legge fallimentare, c.d. “the Bankruptcy code[3]) del codice statunitense (c.d., “the United States Code”), presentare al tribunale competente una domanda affinché sia confermato un piano di riorganizzazione per la continuazione dell’impresa[4] (c.d. plan of reorganitation). Il piano deve essere deliberato dall’assemblea dei soci a maggioranza qualificata di due terzi del valore nominale delle azioni con diritto di voto.  

Per ciò che interessa questo lavoro, nel rapporto tra società debitrice e vecchi creditori, la società, il cui piano di riorganizzazione venga confermato dal tribunale, consegue ai sensi della section 1141 l’effetto della esdebitazione (c.d. discharge), ovvero l’effetto della estinzione di tutti i debiti sorti antecedentemente, fatti salvi però i diritti dei vecchi creditori e degli azionisti di ottenere soddisfazione sugli utili futuri rinvenienti dalla esecuzione del piano della società riorganizzata. Ma come? Con quale criterio redistributivo? In altri termini, come vengono disciplinati i rapporti interni tra i diversi creditori, e come i rapporti tra creditori e azionisti?

Le modalità attraverso le quali gli utili prospettici conseguibili in esecuzione del piano saranno ripartiti tra vecchi creditori e soci sono disciplinate dal principio redistributivo della absolute priority rule (così come codificato nella section 1129), secondo cui al godimento dei risultati futuri si dovrà concorrere non già in condizioni di parità reciproca, bensì secondo un ordine gerarchico, per cui i creditori garantiti saranno soddisfatti prima e meglio dei creditori meno garantiti, ed i creditori meno garantiti saranno soddisfatti prima e meglio dei soci.

Pertanto, una volta presentato il piano e sottoposto alla votazione dei creditori, il tribunale lo confermerà se saranno stati soddisfatti tutti i requisiti previsti dalla section 1129, subsection a) [in seguito, per brevità, “1129 (a)”], tra cui di particolare interesse sono il requisito per cui ciascuna classe di creditori abbia votato in favore della accettazione del piano[5], o che ciascuna classe di creditori – pur non avendo accettato il piano – non sia pregiudicata dal piano [1129 (a) (8)], o, nel caso in cui siano previsti nel piano pagamenti parziali di taluni creditori, che ciascun creditore pregiudicato abbia accettato il piano, o che, pur non avendo accettato il piano, ciascun creditore pregiudicato riceva dalla esecuzione del piano un ammontare non inferiore a quello che ad esso sarebbe derivato dall’assoggettamento della società alla procedura di liquidation di cui al chapter 7 (è questa la verifica della valutazione del migliore interesse dei creditori: il c.d. “best interest of creditors test”).

Ciò nondimeno, sebbene una classe di creditori non abbia prestato il proprio assenso al piano, o sebbene una classe di creditori sia stata pregiudicata dal piano, in deroga alla section 1129 (a)(8), la section 1129 (b) prevede che il tribunale possa comunque confermare il piano, vincolando anche i creditori dissenzienti o pregiudicati, purché il piano non contempli delle ingiuste discriminazioni tra i creditori e, dunque, sia giusto ed equo (“fair and equitable”) con riferimento a ciascuna classe di creditori dissenzienti o pregiudicati. La volontà dei creditori dunque, per quanto necessaria, non è tuttavia sufficiente, potendo il tribunale confermare un piano anche contro le obiezioni dei creditori: tale possibilità viene denominata con l’espressione idiomatica cramdown. In tal caso si dice che il piano è crammed down (letteralmente, “mandato giù”) da coloro i quali avevano votato contro il piano.

La locuzione “fair and equitable” utilizzata nella section 1129 (b) ha in sé il principio della absolute priority rule: un creditore che ha diritto di essere pagato prima di un altro creditore al di fuori dei piani di riorganizzazione ha lo stesso diritto di essere pagato prima anche nell’ambito di un piano di riorganizzazione. Così come i creditori non garantiti (chirografari) hanno diritto di essere pagati prima degli azionisti.

La section 1129 (b) (2) prevede poi una serie di requisiti affinché un piano possa considerarsi “fair and equitable”: requisiti che, tuttavia, non delimitano entro confini rigidi e ben definiti l’ambito entro il quale un piano possa considerarsi giusto ed equo, potendo la giurisprudenza modellare ed adattare tale locuzione a diverse configurazioni del piano a seconda delle concrete ipotesi in esso contemplate.

Difatti, l’evidenza empirica statunitense mostra come i piani di riorganizzazione siano spesso una combinazione di priorità assolute e relative, dove ad esempio creditori non garantiti possono ricevere pagamenti parziali sebbene i creditori garantiti non siano stati pagati integralmente, con dunque deroghe al criterio distributivo dell’absolute priority rule (le c.d., violations of absolute priority rule) documentate da numerosi studi.

Si pensi al lavoro di Weiss[6] che rilevò che negli anni ’80 del secolo scorso 29 su 37 importanti casi di chapter 11 studiati avevano violato il principio della absolute priority rule. Oppure al contributo di Eberhart[7] ed altri che osservarono come i piani confermati dal tribunale davano il 7% del totale del valore delle società riorganizzate a creditori non garantiti e ai vecchi azionisti, ai quali invece una stretta aderenza all’absolute priority rule non avrebbe consentito alcun pagamento. Betker[8] studiò che le deviazioni dall’absolute priority in favore degli azionisti sono più basse in quei casi nei quali maggiore è l’insolvenza della società riorganizzata e maggiore è la percentuale di credito del ceto bancario e di creditori garantiti. Franks e Torous[9] conclusero che, dopo aver analizzato 41 casi di Chapter 11 di grandi società, quasi 900 milioni di dollari furono pagati a creditori ai quali non sarebbe spettato nulla in base alla regola della absolute priority, così come quasi 300 milioni di dollari vennero corrisposti agli azionisti.

Sotto il profilo giurisprudenziale, di notevole importanza è la decisione della Suprema Corte pronunziata il 3 maggio 1999 nella causa promossa dalla Bank of America National Trust and Savings contro 203 North LaSalle Street Partnership. In breve il caso: una partnership costituita tra un gruppo di investitori immobiliari acquistò quindici piani di un palazzo con destinazione uso ufficio nel centro di Chicago, ottenendo un mutuo di 93 milioni di dollari che, in caso di inadempimento del mutuatario, avrebbe consentito alla banca mutuante di rivalersi soltanto sugli immobili costituiti a garanzia (c.d. nonrecourse mortgage[10]). Il valore degli immobili crollò nei primi anni ’90, sicché il valore della garanzia della Banca (rappresentato dal valore di mercato degli immobili acquistati) si ridusse rispetto al valore del credito residuo. Gli investitori immobiliari tentarono così di ristrutturare il mutuo presentando un piano di riorganizzazione sotto il chapter 11. Nel piano vennero offerti alla Banca dei pagamenti, derivanti dalla implementazione del piano, che, seppure parziali, sarebbero tuttavia stati maggiori di quanto la Banca avrebbe invece percepito se avesse fatto valere la propria garanzia (rectius, con un pignoramento immobiliare, dato che il valore degli immobili dati a garanzia era sceso ed il mutuo era del tipo nonrecourse), e venne altresì previsto che ai partners della partnership sarebbe spettato in via esclusiva il diritto di conferire nuovo capitale in cambio dell’intera proprietà della società riorganizzata (dunque, i vecchi soci sarebbero rimasti proprietari degli immobili).

Così formulato il piano contemplava due violazioni al principio dell’absolute priority rule: i) la prima, giacché il creditore bancario, garantito soltanto sino al valore degli immobili costituiti a garanzia, sarebbe stato pagato, ancorché parzialmente, ma di più della sua stessa garanzia ed in via preferenziale rispetto agli altri creditori, garantiti e non, dato che per la parte non coperta il credito non sarebbe degradato a chirografo; ii) la seconda, dato che i soci, notoriamente postergati, sarebbero invece rimasti nella proprietà degli immobili.

La Banca votò contro il piano[11] e la partnership chiese al tribunale il cramdown del piano così da imporre il piano al creditore dissenziente.

Ai sensi della section 1129 (b) (1) affinché vi possa essere un cramdown occorre che il piano sia “fair and equitable” con riferimento ad ogni classe di creditori che non lo abbia approvato.

Un piano è “fair and equitable” se il portatore di un interesse non garantito (quale è il socio) non riceverà, per la soddisfazione di questo interesse, alcuna parte della proprietà della società riorganizzata [section 1129 (b) (2) (B) (ii)][12]. 

In virtù della absolute priority rule codificata in detta norma, pertanto, la Banca sostenne che il piano non sarebbe potuto essere confermato con un cramdown dato che i vecchi soci avrebbero ricevuto le nuove azioni – e dunque la proprietà – della società riorganizzata, mentre la Banca sarebbe stata rimborsata soltanto parzialmente.

Il tribunale fallimentare confermò il piano, così pure il tribunale del distretto (the District Court) e la Banca presentò appello.

La questione giuridica sollevata fu la seguente. Nel caso di specie la Banca è un creditore garantito, tuttavia, poiché il valore della sua garanzia è incapiente rispetto al valore del credito, la corte di appello[13] rilevò che il credito della Banca sarebbe dovuto essere diviso in due componenti ai sensi della section 1111 (b): 1) la parte di credito coperta da garanzia, da collocare come credito garantito; 2) la parte di credito non coperta da garanzia, da collocare come credito non garantito (da degradare a chirografo). Pertanto, la Banca, nel momento in cui votò, avrebbe dovuto esprimere il voto contrario non già soltanto come creditore garantito, ma sia come creditore garantito, che come creditore non garantito.

Inoltre la section 1129 (b) (2) prevede che quando una classe di creditori non garantiti dissente da un piano di riorganizzazione e non è pagata integralmente (come nel caso della Banca, per la parte non coperta da garanzia), un piano è fair and equitable se, tra le altre cose, il portatore di un interesse o di un diritto non protetto (quale è l’interesse del socio o del partner) non riceverà alcuna proprietà della società riorganizzata, diversamente invece da quanto venne previsto nel piano in esame, ove i soci avrebbero mantenuto la proprietà degli immobili.

La corte di appello rilevò che vi è una sufficiente ambiguità nelle disposizioni di cui alla section 1129 (b) che può consentire “una interpretazione del testo tale per cui la absolute priority rule ora, come previsto dalla 1129 (b) (2) (B) (ii), possa avere in sé il corollario del new value” .

In particolare, la corte interpretò la frase “on account of” in modo tale da consentire il riconoscimento alla absolute priority rule del c.d. “corollario del nuovo valore” (c.d. “new value corollary”), in forza del quale il voto contrario del creditore dissenziente non impedisce al vecchio socio di ricevere la partecipazione al capitale della società riorganizzata, purché egli effettui apporti in danaro, ragionevolmente equivalenti al valore delle attività patrimoniali attribuitegli: nuovo danaro, peraltro a titolo di capitale sociale, necessario per il successo della ristrutturazione dell’impresa.

Difatti la Corte nel considerare se il linguaggio utilizzato dalla section 1129 (B) (2) (B) (ii) potesse o meno comprendere anche la new value exception, precisò che la locuzione “on account of  non deve interpretarsi nel significato di “in exchange for” o di “in satisfaction of”, ma piuttosto nella diversa accezione di “because of”.

Dunque per la Corte di appello il tribunale fallimentare non deve confermare un piano ove il vecchio socio riceva partecipazioni a causa  (“on account of”, nel  significato individuato dalla Corte di “because of”) del suo pregresso diritto che, in quanto vecchio socio, è per sua natura postergato. Viceversa, il tribunale dovrà confermare il piano nel quale il vecchio socio riceva partecipazioni in cambio di (“in exchange for”) nuovi conferimenti in danaro al capitale della società riorganizzata, dato che il socio sta ricevendo partecipazioni a causa ("on account of") non già del suo precedente status di socio, ma, piuttosto, a causa ("on account of") dei suoi nuovi conferimenti a titolo di capitale.

Avverso tale decisione di rigetto della impugnativa la Banca infine propose ricorso dinanzi la Suprema Corte. Nella decisione il giudice relatore David Hackett Souter scrisse che, in ossequio al regime dell’absolute priority, i soci del vecchio capitale della società che ha presentato il piano non possono ricevere nessuna proprietà della nuova società riorganizzata (rectius, non possono mantenere la proprietà degli immobili) se una classe di creditori dissenzienti non sarà pagata integralmente. Come precisato anche dal giudice Clarence Thomas nella sua concurring opinion[14], un piano che preveda per i vecchi soci il diritto esclusivo sul capitale della società riorganizzata attribuisce agli stessi una stock option, ovvero qualcosa che è ordinariamente considerata come proprietà nel significato della section 1129 (b).

Così come, prosegue la Suprema Corte, ed è questa la massima pronunziata in difformità rispetto alla Corte di appello, i vecchi soci non possono, con creditori che hanno votato contro il piano, apportare nuovo capitale e ricevere in cambio partecipazioni azionarie della società riorganizzata, quando nel piano tale opportunità sia data soltanto ai vecchi soci. Piuttosto, affinché possa essere derogata la absolute priority rule, un piano che – previo conferimento di danaro – attribuisca quote ai vecchi soci deve estendere tale opportunità anche ad altri soggetti che potrebbero competere per l’acquisizione delle quote sociali, o che potrebbero anche proporre un piano di riorganizzazione alternativo. Pertanto, affinché possa essere violata l’absolute priority non basta che i vecchi soci conferiscano, a titolo di nuovo capitale, danaro equivalente al valore dell’attivo patrimoniale, in quanto occorre che sia data anche a terzi la possibilità di presentare offerte per la sottoscrizione delle nuove azioni secondo una logica competitiva, ovvero occorre che sia data anche a terzi la possibilità di presentare piani alternativi e concorrenti.

Si tratta dunque di un principio fortemente derogatorio della absolute priority rule, consentendo ai soci – notoriamente postergati – di mantenere la proprietà delle attività patrimoniali della società riorganizzata (la c.d., “new value exception to the absolute priority rule”).

In conclusione dunque, per la Suprema Corte il tribunale fallimentare non deve confermare un piano ove il vecchio socio riceva partecipazioni a causa del suo status che, in quanto vecchio socio, è per sua natura postergato. Viceversa il tribunale deve confermare un piano nel quale il vecchio socio riceva azioni di nuova emissione in cambio di conferimenti in danaro al capitale della società riorganizzata, purché tuttavia tale possibilità di sottoscrivere il nuovo capitale sociale sia estesa anche a soggetti terzi, instaurandosi così un meccanismo di competizione tra vecchi soci e terzi nella sottoscrizione di nuove azioni, o purché il piano proposto venga scelto tra diverse alternative proposte e conformi alla section 1129 (c.d. multiple plans).  

Come venne rilevato[15], con questa sentenza sono stati offerti ai tribunali fallimentari statunitensi – e ai creditori – due metodi alternativi per decidere se approvare o meno un piano di riorganizzazione: (i) il metodo della comparazione tra piani alternativi (c.d., “the competing plans option”; ii) il metodo della comparazione tra diverse offerte di prezzo, da parte di tutti i potenziali interessati, per la sottoscrizione del nuovo capitale della società (c.d., “the competing bidding option”). Il secondo tuttavia sarebbe preferibile al primo, dato che consente ai creditori e ai tribunali di meglio confrontare le offerte concorrenti.

Negli anni le applicazione giurisprudenziali del pronunciamento della Suprema Corte del 1999 sono state diverse. Da ultimo si riporta quella dell’aprile 2013, allorché la Corte di appello[16], rovesciando il provvedimento di conferma del tribunale fallimentare, non  confermò il piano di riorganizzazione presentato dalla società Castleton Plaza lp, dato che viola l’absolute priority rule il piano nel quale sono previsti pagamenti parziali dei creditori garantiti mentre il vecchio azionista riceve la proprietà della società riorganizzata in cambio di conferimento di new value, senza che tuttavia vi sia stata una preventiva valutazione di mercato del valore delle attività patrimoniali e, dunque, della congruità del new value.

Queste che precedono le deroghe alla regola della absolute priority rule statunitense.

   

3. – Riflessioni per un mutamento dell’assetto dispositivo italiano

Concentrandosi ora sulla disciplina fallimentare italiana, nonostante la riforma abbia introdotto nell’ambito del concordato preventivo la possibilità – verificati certi presupposti – del pagamento parziale anche dei creditori privilegiati, permane tuttavia una stringente e pervasiva tutela dei creditori garantiti nell’ambito del fallimento, del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti.

La ragione di ciò va ravvisata in un grosso equivoco di fondo che si pone ogniqualvolta si sia dinanzi una situazione di crisi d’impresa: la mancata comprensione delle diverse finalità tra, da un lato, la procedura con funzione precipuamente liquidatoria in una ottica satisfattoria dei creditori (il fallimento), e dall’altro, i rimedi aventi come funzione quella  di consentire la riorganizzazione aziendale nella prospettiva della continuità dell’impresa: il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti. 

Se il concordato preventivo è una procedura con finalità diversa rispetto al fallimento, l’effetto, e al tempo stesso la riprova di tale mancata comprensione è la creazione di istituti quali il concordato preventivo liquidatorio e il concordato preventivo con continuità.

La locuzione concordato con continuità è una tautologia.

La locuzione concordato liquidatorio è una contraddizione in termini, dato che ha nella sua componente teleologica una contraddizione finalistica: come si può favorire la continuità dell’attività attraverso il dissolvimento del complesso produttivo? A meno che si voglia sostenere che il concordato liquidatorio abbia la finalità liquidatoria propria del fallimento. Ma allora, quale sarebbe la differenza tra il fallimento e il concordato liquidatorio, stante la circostanza che hanno entrambe lo stesso presupposto soggettivo, oggettivo e medesima funzione? Si tratta evidentemente di una duplicazione, fonte di numerosi equivoci, dai quali scaturiscono inevitabili dispute dottrinali e giurisprudenziali, prima fra tutte quella inerente la qualificazione di un piano concordatario che contempli la cessione in blocco, o l’affitto, del complesso aziendale. Si discute infatti se, nel caso di specie, si sia in presenza di un concordato liquidatorio o di un concordato con continuità.

Discussione che tuttavia è frutto di uno pseudo problema, dato che se si considerano le tre nozioni giuridiche di imprenditore (art. 2082 c.c.), di impresa (art. 2082 c.c.) ed azienda (art. 2555 c.c.), occorre distinguere rispettivamente tra profilo soggettivo, profilo dinamico e profilo oggettivo dell’attività produttiva.

L’imprenditore è il soggetto che esercita l’impresa.

L’impresa è l’attività economica esercitata professionalmente per la produzione e lo scambio di beni e servizi.

L’azienda è lo strumento attraverso il quale tale attività viene esercitata: il complesso dei beni e servizi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.

Avendo ben chiare queste tre categorie, il piano concordatario, nel quale sia contemplata la cessione dell’azienda (lo stesso dicasi per l’ipotesi dell’affitto di azienda) ad un altro imprenditore, deve considerarsi come un concordato con continuità, e non come concordato liquidatorio, poiché l’imprenditore assuntore (o affittuario) acquisterà (o affitterà) l’azienda per continuare l’esercizio dell’impresa.

Il criterio discretivo tra ipotesi liquidatoria e ipotesi continuativa non deve essere ravvisato con riferimento alla individuazione del soggetto che esercita l’impresa, tale che se l’impresa sarà esercitata dal vecchio imprenditore si è in presenza di una continuità che, invece, verrebbe meno nella diversa ipotesi in cui l’impresa sarà esercitata dal nuovo imprenditore acquirente (o affittuario). Né tantomeno deve ravvisarsi in relazione alla sfera patrimoniale dell’imprenditore in crisi, tale che se il complesso aziendale esce dal suo patrimonio si è in presenza di una liquidazione, mentre se ne rimane in proprietà si è in presenza di un concordato con continuità (si pensi peraltro alle rilevanti implicazioni che tale impostazione comporterebbe nel sistema statunitense, dove l’absolute priority rule poc’anzi esaminata stabilisce che il vecchio azionista, in virtù del suo status, non dovrà ricevere alcuna proprietà della società riorganizzata). Il distinguo va invece individuato con esclusivo riferimento alla nozione di impresa, verificando se l’attività economica sarà o meno continuata, a nulla rilevando se cambi il soggetto imprenditore.

Tornando all’equivoco del concordato liquidatorio, nel 1942, allorché venne introdotto l’istituto del concordato preventivo con cessio bonorum, la finalità perseguita fu la liquidazione del complesso aziendale in funzione satisfattiva del ceto creditorio, attraverso un beneficio concesso all’imprenditore onesto ma sventurato, rispetto alla allora alternativa – sempre con funzione liquidatoria – del fallimento previsto invece per il diverso caso dell’imprenditore disonesto e truffaldino. All’epoca il concordato venne contemplato quale alternativa per evitare il fallimento dell’imprenditore meritevole. Oggi il concordato non è una alternativa che serve per evitare il fallimento: il concordato ha una funzione completamente diversa dal fallimento. Difatti, con le riforme di questi anni numerose sono state le modifiche apportate al fallimento, non più considerato in una ottica sanzionatoria dell’imprenditore, giacché è venuta maturando nel tempo la convinzione che la crisi sia una patologia – con diversi gradi di malessere – che può colpire tutti gli imprenditori al punto da arrivare ad essere considerata un elemento fisiologico nello svolgimento dell’attività economica, tanto più in un ambiente come quello attuale caratterizzato da crescente complessità e difficoltà.

Allora, un contributo per migliorare e semplificare il dato normativo vigente, così da dotare il Paese di un sistema di regole nuove atte a disciplinare – e non risolvere – (il diritto disciplina, mentre l’economia e la finanza d’impresa risolvono) il fenomeno della crisi di impresa, occorre in via preliminare, prima di qualsiasi discussione tecnica, avere chiarezza e condivisione (i) su una serie di categorie logico-concettuali sulle quali fondare il ragionamento, (ii) sugli intendimenti di politica del diritto che si intendono perseguire e (iii) sulle metodologie da applicare: categorie logiche e finalità politiche attorno alle quali costruire un sistema normativo organico e coerente con le premesse logiche, teleologiche e di metodo prescelte.

Quanto alle categorie logiche, occorre avere chiarezza in ordine alla dicotomia concettuale, di matrice economica, tra crisi finanziaria irreversibile e crisi finanziaria reversibile. Si tratta di concetti che, in quanto tali, sono frutto di un procedimento logico induttivo di astrazione dal particolare al generale, così da ridurre e semplificare, per finalità cognitive, ad unitarietà concettuale ciò che nella realtà è invece molteplicità di manifestazioni.

L’imprenditore è in crisi finanziaria irreversibile quando, oltre a non essere in grado di adempiere le proprie obbligazioni in scadenza con i normali mezzi di pagamento (versione statica/attuale della crisi), non presenta neanche i fondamentali produttivi per continuare nell’esercizio dell’impresa (versione dinamica/prospettica della crisi).

L’imprenditore è in crisi finanziaria reversibile quando, sebbene non sia in grado di adempiere le proprie obbligazioni in scadenza con i normali mezzi di pagamento, presenta tuttavia dei fondamentali produttivi tali per cui – ristrutturando il complesso aziendale – può continuare nell’esercizio dell’impresa, generando valore aggiunto prospettico.   

Dinanzi a queste due differenti situazioni, diverse debbono essere le finalità da perseguire e le metodologie da adottare.

Quanto all’elemento teleologico, nella ipotesi di crisi finanziaria irreversibile la finalità da perseguire è la soddisfazione del ceto creditorio attraverso il dissolvimento del complesso produttivo. Per fare ciò le metodologie da adottare sono, da un lato, quello della equità e giustizia per una equa distribuzione tra i creditori nel rispetto delle cause legittime di prelazione; dall’altro, quello della efficienza per la massimizzazione del risultato liquidatorio, attraverso cessioni da realizzarsi ad esempio mediante procedure competitive.

In caso di crisi finanziaria reversibile invece la finalità da perseguire è favorire la continuità della impresa per la salvaguardia di un sistema produttivo ancora vitale, ancora con prospettive di produttività, consentendo che la tutela di ciascuna attività d’impresa si traduca in benessere nazionale, salvaguardando e mantenendo così la competitività dell’intero sistema Paese, senza che per questo si debbano invece richiedere interventi di salvataggio dell’operatore pubblico nel campo economico a spese, peraltro, della intera collettività.

In tal caso la metodologia da adottare è quella della efficienza, attraverso la predisposizione di piani di ristrutturazione, non necessariamente concertati con i creditori (emotivamente coinvolti dalle sorti dell’impresa e nella gran parte portatori di interessi egoistici confliggenti con l’interesse alla tutela della continuità produttiva), che dovrebbero essere sottoposti al parere obbligatorio ma non vincolante dei creditori (così da sterilizzarne le inerzie o l’ostruzionismo), e alla approvazione del tribunale.

Tali piani potrebbero prevedere anche importanti deroghe alla soddisfazione dei creditori garantiti, prevedendo dei pagamenti integrali e preferenziali in favore di coloro che apportano nuovi danari, sia a titolo di capitale sociale (i nuovi azionisti, che potrebbero anche essere i vecchi soci che effettuano nuovi sottoscrizioni – anche sopra la pari – per ricevere in cambio partecipazioni nella società riorganizzata), sia a titolo di capitale di credito (i nuovi finanziatori), per consentire la ristrutturazione dell’impresa. Si tratta di nuova liquidità, linfa vitale per il rilancio dell’attività.

Questo è un aspetto molto importante, poiché in questo modo la bontà del piano sarebbe di immediata percezione, dato che: (i) gli insiders e/o outsiders saranno disposti ad effettuare impieghi di denaro soltanto in progettualità delle quali avranno ben vagliato i rischi ed i benefici; (ii) tale innovazione normativa sul pagamento preferenziale del nuovo capitale costituirebbe un incentivo per gli imprenditori a fare davvero emergere tempestivamente la crisi finanziaria negli stati iniziali; (iii) la continuità, sostenuta con interventi finanziari interni e/o esterni, verrebbe così perseguita soltanto in presenza di presupposti adeguati. Senza poi trascurare lo svilupparsi di un vero mercato delle imprese in crisi reversibile, in cui operatori finanziari ed industriali sarebbero disposti ad investire per il rilancio delle  imprese: l’homo oecomicus è generalmente un essere razionale, pertanto è difficile pensare ad un imprenditore e ad un finanziatore che siano disposti a continuare a rischiare i loro capitali in venture industriali prive di prospettive di ripresa e profittabilità.

Dall’esperienza statunitense poi dovrebbe essere mutuato l’insegnamento della Suprema Corte, per cui, affinché si possa violare la absolute priority rule, consentendo al vecchio azionista l’apporto di new value per avere in cambio partecipazioni nella società ristrutturata, è necessario che sia garantita la congruità del conferimento rispetto al valore della partecipazione, prevedendo stime e favorendo offerte da parte di terzi in una logica competitiva.

Dal punto di vista procedurale, l’imprenditore dovrebbe presentare un piano nel quale indicare anche il test del migliore interesse per tutti i creditori (privilegiati e chirografari, guardando più all’entità del passivo che sarà soddisfatto piuttosto che alla sua tipologia), ovvero nel quale motivare perché il piano rappresenti la soluzione più efficiente anche per tutti i creditori: la continuazione dell’impresa consentirà nel tempo una migliore soddisfazione dei creditori rispetto alla liquidazione del complesso aziendale.

L’imprenditore dovrà, quindi, effettuare una comparazione tra il valore liquidatorio dell’attivo patrimoniale alla data di predisposizione del piano, con indicazione delle percentuali di riparto tra i creditori nel rispetto delle cause di prelazione, ed il valore attualizzato dei flussi finanziari prospettici rinvenienti dalla esecuzione del piano, confrontando le percentuali spettanti ai creditori in base al riparto attuale, senza alcuna continuazione, con quelle spettanti ai creditori in base ad un riparto graduato nel tempo per effetto della continuazione.

Occorrerà poi l’attestazione di un professionista sulla veridicità delle stime liquidatorie dell’attivo e del passivo patrimoniale, rispettivamente a valori presumibili di realizzo e a valori presumibili di estinzione, nonché sulla fattibilità del piano e dunque sulla congruità e ragionevolezza delle stime dei flussi finanziari prospettici contemplati nel piano, oltre che sulla congruità della stima del saggio di sconto utilizzato per attualizzare le grandezze monetarie previsionali.

Al tribunale fallimentare spetterà controllare la predisposizione del piano, anche nel merito attraverso la verifica del migliore interesse per tutti i creditori, così da, sentito il parere obbligatorio ma non vincolante dei creditori, approvare o rigettare il piano. 

Tali modifiche normative, che indubbiamente vanno a beneficio degli imprenditori seriamente motivati a salvaguardare l’impresa, sussistendone i presupposti, dovrebbero tuttavia essere effettuate unitamente ad un mutamento anche del sistema penale fallimentare, tale da prevedere, in caso di improbabile ma non impossibile successivo fallimento, fattispecie criminose a carico dell’imprenditore, del professionista attestatore, dei consulenti legali e dei consulenti finanziari e contabili che a vario titolo possono avere assistito l’imprenditore nella predisposizione del piano, così da sanzionare abusi e comportamenti truffaldini, con l’aggravante per l’imprenditore che, effettuando false comunicazioni sociali, abbia alterato l’intero processo di ristrutturazione.

Un sistema normativo così pensato potrebbe rimuovere le criticità illustrate in premessa, fungendo da filtro per quei piani non veritieri e non fattibili con intenti meramente dilatori, in favore invece di piani seriamente strutturati da imprenditori motivati, prescindendo dal comportamento inerte ed indifferente di taluni creditori del tutto disinteressati alle sorti dell’impresa debitrice.                                                      



[1] La section 101 del bankruptcy code definisce l’insolvenza come quella condizione che esiste allorché l’ammontare complessivo delle passività di un debitore, attualizzato ad un congruo tasso di sconto, eccede l’ammontare complessivo delle sue attività (è questa la c.d. “insolvency in the bankruptcy sense”). Tuttavia non vi è alcuna norma che esplicitamente richieda il presupposto oggettivo dello stato di insolvenza affinché un debitore possa ricorrere alla liquidation piuttosto che ad un plan of reorganitation. L’insolvenza è invece richiesta dalla section 109 quale presupposto indefettibile affinché una municipality sia ammessa al chapter 9. Così come l’insolvenza, ma nella diversa accezione di incapacità di pagare i debiti in scadenza (la c.d. “insolvency in the equity sense”), è richiesta affinché i creditori possano chiedere il fallimento involontario del debitore.

[2] Ovvero abbia la capacità di generare valore prospettico, perché ad esempio realizza un prodotto che è ancora ben posizionato in un determinato segmento di mercato. Tale capacità può essere quantificata attualizzando, ad uno stimato tasso di sconto, i flussi finanziari previsionali così da comparare il valore netto attualizzato della società con l’ammontare dell’attivo patrimoniale a valori di liquidazione: se il primo sarà maggiore del secondo, la riorganizzazione, e dunque la continuità sarà giustificata, altrimenti si dovrà procedere con il dissolvimento dell’attività economica poiché non più generatrice di valore.

[3] Si precisa che il termine bankruptcy (letteralmente, bancarotta) deriva dalla abitudine dei creditori, invalsa nella penisola italica durante il medioevo, di rompere il banco dei mercanti inadempienti i quali fuggendo, dandosi alla macchia, non onoravano i propri debiti lasciando così i creditori insoddisfatti.

[4] Sotto il chapter 11 il debitore continua a gestire l’impresa, a meno che il tribunale nomini un trustee, nel migliore interesse dei creditori, o perché siano riscontrate ipotesi di mala gestione.

[5] Occorre una doppia maggioranza, per ammontare e per teste: 1) la maggioranza qualificata di almeno due terzi del  passivo nominale rappresentato dalla classe; 2) la maggioranza assoluta del numero dei creditori che compongono la classe.

[6] Weiss L., “Bankruptcy Resolution: direct costs and violation of priority claims”, in Journal of Financial Economics, december 1990, p. 285-314.

[7] Eberhart A., Moore T., Roenfeldt R., “Security pricing and deviation from absolute priority sale in bankruptcy proceedings”, in Journal of finance, December 1990, p. 1457-1469.

[8] Betker. B., “Management changes, equity’s bargaining power and deviations from absolute priority in Chapter 11 bankruptcy”, in Working paper, School of business, Ohio State University, October 1991.

[9] Franks J., Torous W., “An empirical investigation of U.S. firms in reorganization”, in Journal of finance, 1989, p. 747.

[10] Il distinguo è tra recourse mortgage e nonrecourse mortgage. In entrambi i mutui il mutuatario costituisce su un immobile – generalmente quello acquistato con il finanziamento – una garanzia  a favore del mutuante. La differenza sostanziale è che in caso di inadempienza del mutuatario, qualora il valore dell’immobile dato a garanzia sia incapiente, il recourse mortgage consente al mutuante di rivalersi, sino a concorrenza del proprio credito, anche sugli altri elementi dell’attivo patrimoniale del mutuatario, mentre il nonrecourse mortgage consente il soddisfacimento soltanto sull’immobile dato a garanzia. Il nonrecourse mortgage, data la sua maggiore rischiosità, viene erogato a tassi di interesse più alti e a soggetti che godono di un buon merito creditizio.

[11] Si consideri che i pagamenti promessi in favore della Banca sarebbero dovuti essere quelli rinvenienti dalla esecuzione del piano, ovvero quelli rinvenienti dal verificarsi delle ipotesi sottostanti al piano, con dunque l’aleatorietà che ne sarebbe derivata rispetto alla alternativa di una immediata, seppure minore, soddisfazione della Banca attraverso la dismissione degli immobili dati a garanzia.

[12] If "the holder of any claim ... junior to the claims of such class will not receive or retain under the plan on account of such junior claim ... any property."

[13] The United States Court of Appeals for the seventh circuit (in breve, “7th Circ.”) è la corte federale con sede in Chicago competente a conoscere gli appelli avverso le decisioni dei tribunali dei distretti dell’Illinois, dell’Indiana e del Wisconsin.

[14] La concurring opinion è l’opinione scritta data da uno o più giudici che concordano con la decisione presa dalla maggioranza del collegio giudicante, che tuttavia fonda la decisione su diverse argomentazioni. Quando il collegio non raggiunge la maggioranza necessaria per decidere, allora la decisione è presa sulla base della concurring opinion che viene condivisa dal maggior numero dei componenti il collegio (la c.d., plurality opinion).

[15] Hieu T. Hoang, “The new value of the exception to the absolute priority rule after in re 203 N. La Salle Street Partnership: what should bankruptcy courts do, and how can congress help?”, in University Pennsylvania Law Review, 2001, vol. 149, p. 581 – 612.

[16] The United States Court of Appeals for the seventh circuit.


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