Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 557 - pubb. 01/07/2007

Nuova revocatoria: retroattività e regime transitorio

Appello Bologna, 24 Gennaio 2007. .


Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi – Azione revocatoria – Contrasto con la normativa comunitaria – Esclusione.

Riforma della revocatoria fallimentare – Modifiche introdotte con il d.l. n. 35/2005 – Normativa di interpretazione autentica – Esclusione.

Riforma della revocatoria fallimentare – Modifiche introdotte con il d.l. n. 35/2005 – Regime transitorio – Ragionevolezza – Sussistenza.



L’esercizio dell’azione revocatoria di cu all’art. 67 legge fallimentare nell’ambito delle procedure di amministrazione straordinaria della grandi imprese in crisi non è incompatibile con la normativa comunitaria in quante le norme che la prevedono non possono essere considerate aiuti di stato. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

Il nuovo testo dell’art. 67 legge fallimentare dal d.l. n. 35/1980, convertito nella l. n. 80/2005, non può essere intese come interpretazione di quanto già previsto dalla originaria normativa in quanto lo stesso si pone come ius superveniens destinato ad incidere sulla struttura della revocatoria che viene per tale via radicalmente mutata. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

Risponde a criteri di ragionevolezza la scelta del legislatore di limitare espressamente, con la norma transitoria di cui all’art. 2, 2° comma d.l. n. 35/2005, l’applicazione delle relative norme solamente ai fallimenti dichiarati in epoca successiva atteso che una applicazione retroattiva avrebbe inciso in maniera del tutto irrazionale sull’assetto preesistente della azione revocatoria volto a garantire più la par condicio creditorum che le ragioni del terzo entrato in contatto con il fallito. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)



omissis

Motivi della decisione

La società appellante ha preliminarmente riproposto l'eccezione, già sollevata in primo grado e disattesa dal Tribunale, di inapplicabilità della L. n.95/1979 sull'amministrazione straordinaria per asserita contrarietà della stessa alla normativa comunitaria ed in particolare agli art. 92 e 93 del Trattato di Roma sul divieto degli "aiuti di Stato" che "favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino la concorrenza".

Alla dedotta contrarietà. conseguirebbe, invero, per effetto della nota sentenza della Corte costituzionale n.170/1994, la disapplicazione, ad opera del Giudice nazionale, della disciplina illegittima e, quindi, anche della stessa norma (art. 1 comma L.n.95/79) che, attraverso il richiamo agli artt. 195 ss. L.F., autorizza i commissari ad esercitare l'azione revocatoria.

Il problema, in precedenza già affrontato e risolto in senso negativo da questa Corte (sent. nn. 829/2003 e 535/2004) e dalla prevalente giurisprudenza di merito, risulta, ora, compiutamente esaminato e risolto dalla Corte di Cassazione con le sentenze nn. 13165/2004, 18915/2004, 2534/2005 e 21823/05 concordi nell'affermazione del principio che, conformemente a quanto si desume dalle richiamate sentenze 17 giugno 1999 C-295/97 e 1 dicembre 1998 C-200/97 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee nonché dalla decisione del 16 maggio 2000 2001/2121/CE della Commissione europea, "la legge n. 95 del 1979 (di conversione in legge, con modificazioni, del D.L. n.26 del 1979), avente ad oggetto la disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, si pone in contrasto con le norme comunitarie esclusivamente nelle parti in cui prevede aiuti di Stato non consentiti, in virtù di un'interpretazione confortata dall'art. 1, lett. d), regolamento Cce 659 del 1999 il quale, definendo come aiuti di Stato l'atto in base al quale gli stessi vengono attuati, impone di avere riguardo alle singole norme che, eventualmente, li prevedono.

Pertanto, in virtù degli artt. 7 legge n.273 del 2002 e 106 d.lgs. n. 270 del 1999, continuano ad essere applicabili alle procedure di amministrazione straordinaria aperte nella vigenza della legge n.95 del 1979 le norme contenute in quest'ultima legge qualora esse non configurino aiuti di Stato" (Cass. n.2534/05).

In definitiva, quindi, secondo la citata e vincolante giurisprudenza comunitaria, la Legge Prodi (n.95/79) non può ritenersi incompatibile ex se con la normativa comunitaria essendo in realtà incompatibile con detta normativa solo nella parte in cui prevede aiuti non consentiti così come individuati dalle due citate sentenze della Corte di giustizia (autorizzazione alla continuazione dell'attività economica in circostanze in cui ciò non sarebbe consentito dalle regole normalmente vigenti in materia di fallimento ovvero concessione di garanzie di stato, di aliquote fiscali ridotte etc.).

Conseguentemente e come ha espressamente rilevato la Suprema Corte nella sentenza n. 21823/05 dianzi citata, il divieto di cui all'art. 87 (già 92) del Trattato Ce di concedere aiuti alle imprese nel senso predetto in quanto idonei ad incidere sugli scambi tra gli Stati alterando le regole della libera concorrenza comporta effetti solo sulle disposizioni normative degli Stati membri che quegli aiuti prevedono e non sulle leggi in cui tali disposizioni sono contenute "essendo tale risultato da un lato eccedente la finalità della norma comunitaria e dall'altro improponibile perché irragionevolmente limitativo del potere legislativo dello Stato".

Coerente a tale impostazione è quindi il riconoscimento della piena operatività delle norme che prevedono l'esercizio dell'azione revocatoria di cui all'art. 67 L.F anche nelle procedure di Amministrazione Straordinaria non integrando le stesse un aiuto di stato nel senso predetto.

L'azione revocatoria, invero, come ancora leggesi in Cass. n.2534/05, nell'ambito dell'Amministrazione Straordinaria e qualora, come nel caso in esame, sia esperita nella fase di liquidazione (in Cass. n.21823/05 è peraltro affermato il principio della proponibilità dell'azione revocatoria anche nella fase conservativa della procedura), non riveste alcun carattere selettivo essendo del tutto identica a quella prevista nell'ambito di ogni procedura fondata sul presupposto dell'insolvenza come il fallimento o la liquidazione coatta amministrativa nonché basata sui medesimi requisiti e volta alla stessa finalità di tutela del ceto creditorio nell'ottica del ripristino della par condicio creditorim.

Tali considerazioni, puntualmente ribadite da Cass. nn. 4206/06 e 18522/06 e che il Collegio condivide, giustificano, quindi, il rigetto dell' eccezione preliminare della banca appellante.

Né potrebbe giovare alla tesi di quest'ultima il richiamo alla nuova disciplina dettata in materia di Amministrazione Straordinaria dal d. lgs. n. 270/1999 che, per le procedure di amministrazione straordinaria già aperte alla data della, sua entrata in vigore si limita, all'art. 6, a prorogare l'efficacia. della L. n.95/79 ed in nulla incide sulla situazione preesistente.

Ugualmente infondati risultano, poi, i motivi di gravame attinenti al merito con i quali la banca appellante contesta sotto vari aspetti la oggettiva revocabilità delle rimesse, nonché la ricorrenza, ritenuta dal primo Giudice, del requisito soggettivo della scientia decoctionis.

Sotto il primo profilo ** Banca lamenta, anzitutto che il Tribunale sia pervenuto al riconoscimento della natura solutoria (secondo i noti criteri fissati da Cass. n. 5413/1982) delle rimesse in contestazione considerando il c/c n. 3285, su cui sono confluite le rimesse medesime, assistito dalla sola apertura di credito di £ 1.000.000.000 senza tener conto, quindi, degli ulteriori affidamenti per il complessivo importo di £ 7.000.000.000 di cui usufruiva la società correntista indicati alle pagg. 13 e 26 dell'atto di appello.

Tale rilievo non appare fondato.

Gli ulteriori affidamenti richiamati dall'appellante, invero, attengono chiaramente allo smobilizzo di crediti commerciali del cliente verso terzi quali lo sconto di ricevute bancarie e gli anticipi su fatture e pertanto, per consolidata affermazione giurisprudenziale e anche se regolati in conto corrente, sono inidonei ad escludere il carattere solutorio delle rimesse in quanto, diversamente da quanto avviene con il contratto di apertura di credito, non attribuiscono al cliente la facoltà di disporre immediatamente di una determinata somma di denaro ma indicano semplicemente il limite entro il quale la banca è tenuta ad accettare i titoli che saranno presentati dal cliente stesso per lo sconto o per l'anticipazione.

Correttamente, pertanto, la situazione di scoperto del conto e, conseguentemente, il carattere solutorio delle rimesse sono stati determinati con riferimento alla sola apertura di credito per £ 1.000.000.000.

Sempre sotto il profilo oggettivo l'appellante contesta, poi, la revocabilità della rimesse in questione per essere le stesse conseguenti, come non è controverso in causa, a bonifici effettuati sul conto non già dalla società correntista Alfa s.p.a. bensì dal terzo Alfa Petrolchimica s.r.l. ma tale rilievo, che in effetti introduce nel giudizio una eccezione in senso proprio riservata al potere dispositivo della parte, risulta (così come l'Amministrazione Straordinaria aveva dedotto già nel corso del giudizio di primo grado) essere stato dalla banca sollevato in causa, e tra l'altro con una formulazione assai generica, solo con la memoria istruttoria ex 184 c.p.c. depositata il 29-9-2001 e, pertanto, tardivamente.

Lo stesso, quindi, diversamente da quanto ha ritenuto il Tribunale, non può essere preso in esame.

Può peraltro al riguardo rilevarsi che, come già ha osservato il primo Giudice, il versamento effettuato da un terzo sul conto corrente del debitore poi fallito perde la propria autonomia inserendosi nell'ambito del rapporto unitario di conto corrente del quale viene a rappresentare una semplice operazione interna attiva del tutto equiparabile ai versamenti effettuati dal correntista e come tale assoggettabile a revocatoria qualora, come nella specie, in relazione alle risultanze del conto (che si presenti scoperto e non già semplicemente passivo) assuma una funzione solutoria del debito del correntista stesso verso la banca anziché meramente ripristinatoria della provvista (in tal senso, ex multis, Cass. nn.9494/2002 e 12489/2000).

Conseguentemente le circostanze, alle quali si richiama la banca appellante, normalmente richieste per la revoca del pagamento di un debito del fallito effettuato da un terzo e cioè il fatto che il pagamento sia stato in realtà effettuato con denaro del fallito stesso o che il terzo abbia esercitato, prima del fallimento, la rivalsa nei confronti di quest'ultimo, non potrebbero assumere rilievo ai fini della revocabilità dell'operazione.

Né si rivelano fondati i rilievi svolti dall'appellante in comparsa conclusionale in ordine alla pretesa estensibilità al caso in esame della recente disciplina introdotta in materia dal d.l. n.35/2005 convertito nella L. n.80/2005 e cioè dal nuovo testo degli art. 67 3°comma lett. B) L.F. (secondo cui non sono soggette all'azione revocatoria "le rimesse effettuate su un conto corrente bancario purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca") e 70 3°comma L.F. (che per la revocatoria di atti estintivi di rapporti continuativi e reiterati limita l'obbligo restitutorio del terzo ad "una somma pari alla differenza tra l'ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d'insolvenza e l'ammontare residuo delle stesse alla data in cui si è aperto il concorso).

L'applicazione di tale normativa comporterebbe, invero, la sostituzione al noto criterio del cd. saldo disponibile seguito dal C.T.U. ed accolto dal Tribunale per la individuazione delle rimesse aventi carattere solutorio (e per effetto del quale deve aversi riguardo al saldo disponibile, da determinarsi secondo una interpolazione tra dati per valuta e quelli contabili a seconda del tipo di operazione, esistente sul conto alla data di ciascuna operazione di versamento o di accredito) del criterio costituito dal riferimento alla differenza tra il massimo scoperto ed il saldo esistente alla chiusura del conto, criterio, del resto, già adottato dalla giurisprudenza in materia prima della nota pronuncia della Corte di Cassazione n. 5413/82.

Secondo l'appellante tratterebbesi, invero, di norme meramente interpretative del testo originario dell'art. 67 L.F. i cui limiti non erano stati chiaramente tracciati dal legislatore e pertanto applicabili anche retroattivamente e comunque destinate a favorire l'adozione di una interpretazione ad esse conforme.

Tale assunto, che pure trova conforto in parte della recente dottrina, non può essere condiviso.

Come questa Corte ha già rilevato in precedenti pronunce ed in particolare nella sentenza n.470/2006 (resa nella causa n. 1246/03 tra Intesa Gestione Crediti e Fallimento Bugatti Automobili s.p.a.), per la soluzione di tale questione "occorre prendere le mosse proprio da quella giurisprudenza, assai risalente nei tempo, che pur considerando revocabile ogni rimessa anche se intrafido (e, quindi, su conto meramente passivo ma non scoperto) attenuava poi tale principio, assai rigoroso nei confronti dell'Istituto di Credito, limitando la violazione della par condicio creditorum alla differenza tra massimo scoperto e saldo finale … Successivamente, tramite un lungo iter giurisprudenziale che prende le mosse da Cass. n. 5413/82 ed ha tra le sue tappe più chiare e significative Cass. n. 10869/94, è stato definitivamente chiarito, quanto all'originario testo dell'art.67 L.F., che in realtà elemento fondamentale per verificare se le singole rimesse affluite sul conto corrente del fallito nel periodo sospetto siano o meno revocabili, è "la stabilità" o "la precarietà" della disponibilità di denaro concessa al correntista: nel primo caso si deve escludere la funzione solutoria della rimessa e la sua revocabilità perchè essa assolve unicamente al compito di ripristinare quel limite di "stabilità" che in sostanza assi-cura al correntista il pieno ed incondizionato diritto di poter usufruire dell'intera apertura di credito o che, come è stato efficacemente indicato, crea "il meccanismo contrattuale di ripristino della disponibilità per successive utilizzazioni da parte del correntista"(Cass. 10869/94 cit.); viceversa, nella ipotesi di conto corrente scoperto o comunque non affidato, "in mancanza di un obbligo della banca di consentire stabile disponibilità al cliente, la funzione unitaria del conto non consente di superare la singolarità di ciascuna operazione" determinando il diritto della banca a richiedere l'immediato pagamento di quanto anticipato senza averne l'obbligo. Tale autorevole e condivisibile giurisprudenza ha così ribadito, da un lato, che le singole rimesse sono oggetto dell'azione revocatoria esperita dal fallimento purché esse abbiano natura solutoria, e ha, dall'altro, definitivamente abbandonato il criterio della differenza tra massimo scoperto e saldo finale, che -lo si ripete- valeva unicamente a limitare l'amplissimo criterio in precedenza adottato che rendeva revocabili tutte le rimesse affluite sul conto.

Come è evidente, tale ultima interpretazione in nessun modo si pone in contrasto con la disciplina del conto corrente bancario ed anzi valorizza, nel diverso ambito proprio della revocatoria bancaria, aspetti specifici cosicché è stata seguita dalla pressoché costante giurisprudenza successiva di legittimità e di merito.

Quindi il nuovo testo degli artt. 67 comma 3° e 70 comma 3°L.F. in realtà non si può intendere come mera interpretazione di quanto già previsto dalla originaria normativa, ma si pone come ius superveniens destinato ad incidere (non sulla struttura del conto corrente bancario ma esclusivamente) sui limiti della azione revocatoria che viene per tale via radicalmente mutata.

Risponde dunque a criteri di ragionevolezza la scelta del legislatore di limitare espressamente, con la norma transitoria di cui all'art.2, 2°comma d.l. n. 35/2005 l'applicazione delle norme relative - diversamente da quanto accade per altre modifiche apportate alla legge fallimentare - solamente ai fallimenti dichiarati in epoca successiva atteso che una applicazione retroattiva avrebbe inciso in maniera (questa si) del tutto irrazionale sull'assetto preesistente della azione revocatoria volto a garantire più la par condicio creditorum (anche a prezzo di risultati per qualche verso discutibili) che le ragioni del terzo entrato in contatto con il fallito (pur sempre salvaguardato dalla eventuale ignoranza dello stato di decozione).

Non è pertanto possibile attribuire efficacia retroattiva -alle nuove disposizioni né in via diretta (ipotesi, questa, del resto espressamente esclusa dalla richiamata norma transitoria) né valorizzando una superata interpretazione giurisprudenziale che muoveva da presupposti affatto diversi".-

Né, infine, è meritevole di accoglimento il motivo di gravame con il quale ** Banca lamenta l'erroneità della valutazione operata dal Tribunale in ordine all'idoneità degli elementi presuntivi offerti dalla Procedura a dimostrare la sussistenza, in capo ad essa appellante ed all'epoca dei pagamenti revocandi, del requisito soggettivo della scientia decoctionis richiesto dal citato art. 67 2° comma L.F. che lo stesso Tribunale ha richiamato a fonda-mento della pronuncia di revoca.

In materia, invero, è principio giurisprudenziale consolidato che la certezza logica dell'esistenza di tale stato soggettivo (vertendosi in tema di prova indiziaria e non diretta) non richiede la dimostrazione della conoscenza effettiva, da parte di quello specifico creditore, dello stato di decozione dell'impresa (prova inesigibile perché diretta) né può dirsi acquisita qualora tale conoscenza sia ravvisabile con riferimento ad una figura di contraente "astratto" (prova inutilizzabile in quanto correlata ad un parametro del tutto teorico di "creditore avveduto") ma può ritenersi raggiunta ogniqualvolta la scientia decoctionis sia ragionevolmente presumibile in relazione alle circostanze e condizioni (economiche, sociali, organizzative, topografiche e culturali) nelle quali il creditore del fallito si sia concretamente trovato ad operare (in tal senso, ex plurimis, Cass. nn. 19894/05, 19611/04, 13646/04, 1719/01 656/2000, 11369/98, 11060/98, 8083/95 e 1545/95).

Con riferimento all'ipotesi di azione revocatoria proposta dalla procedura concorsuale di società collegate ad altre facenti parte del medesimo gruppo risulta, poi, in particolare, affermato che la prova della conoscenza dello stato di insolvenza in capo all'accipiens può desumersi presuntivamente dalla dimostrazione della conoscenza, da parte del creditore, della crisi del gruppo al quale appartiene l'impresa (Cass. nn. 10115/06, 4473/97, 6225/95 e 5900/95) essendo ragionevole ritenere, in considerazione degli stretti rapporti commerciali e finanziari che normalmente si instaurano tra soggetti giuridici collegati, che le rispettive condizioni economiche risultino reciprocamente influenzate e ciò particolarmente quando, come nel caso in esame, il dissesto riguardi la impresa holding.

Ciò premesso in via generale, deve riconoscersi che il convincimento nella specie espresso dal Giudice di primo grado in ordine all'effettiva sussistenza di tale requisito soggettivo risulta basato su elementi indiziari gravi, precisi e concordanti e, pertanto, non appare fondatamente censurabile.

Essendo stato l'assoggettamento di Alfa s.p.a. alla procedura di Amministrazione Straordinaria di-sposto con D.M. del 23-6-1995, il cd. periodo sospetto nel quale possono configurarsi pagamenti revocabili ed in relazione al quale assume quindi rilievo l'esistenza, in capo all'accipiens, della scientia decoctionis si colloca, invero, in linea generale, tra il 23-6-1994 ed il 23-6-1995 e nella specie, in relazione alle date delle due rimesse in contestazione, tra il 3 ed il 28 febbraio 1995.

Orbene, i dati desumibili dalla documentazione prodotta dalla Procedura di Amministrazione Straordinaria ed evidenziati nella sentenza impugnata consentono di ritenere che, in effetti, la grave crisi del gruppo Alfa, di cui Alfa s.p.a. era l'impresa holding, fosse divenuto di pubblico dominio già nel primo semestre del 1994 e, per-tanto, da tale periodo non potesse essere ignorata da un creditore particolarmente qualificato come BANEC.

Tale affermazione risulta in particolare giustificata dal rilievo dato alla vicenda dai numerosi articoli comparsi nella primavera del 1994 sulla stampa nazionale non solo specializzata, dai numerosissimi decreti ingiuntivi emessi, a decorrere dalla seconda metà del 1993 e da vari Tribunali, a carico della holding Alfa s.p.a. e delle società collegate, dall'ipoteca giudiziale iscritta nella primavera del 1994 a carico di Alfa s.p.a., dalla estesa revoca degli affidamenti e dalle richieste di rientro a società del gruppo operate dagli Istituti di credito a decorrere dal 1 dicembre 1993, dal recesso della stessa X dal finanziamento in pool capofilato dalla Cassa ***, dalle dismissioni dal capitale di soci istituzionali quali Mediobanca, Sasib ed Unicem, dalla progressiva perdita di valore del titolo Alfa e dai dati estremamente negativi evidenziati dal bilancio di Alfa s.p.a. al 31-12-1993 che la banca, al pari di ogni altro Istituto di Credito, non poteva certo ignorare.

In tale situazione di conclamato dissesto nessun significativo rilievo a favore della tesi dell'appellante può poi assumere il decreto di non prosecuzione dell'istruttoria prefallimentare a carico della holding Alfa s.p.a. e di Alfa Energia emesso dal Tribunale di Bologna il 7-12-1994 e, tra l'altro, a seguito della desistenza, da parte dei creditori istanti, dalle domande di fallimento precedentemente proposte.

La valutazione espressa dal primo Giudice in ordine all'effettiva ricorrenza, in capo al creditore, dell'elemento psicologico richiesto per l'utile esperibilità del rimedio revocatorio di cui all'art. 67 2° comma L.F. appare, pertanto, corretta e pienamente condivisibile.

Tali considerazioni giustificano, quindi, il rigetto dell'appello e la conferma dell'impugnata sentenza.

La banca appellante, conseguentemente, dovrà rifonde-re alla controparte anche le spese del presente grado liquidate come a dispositivo.

P.Q.M.

La Corte d'Appello di Bologna definitivamente pronunciando sull'appello proposto da ** Banca s.p.a. (già B.A.N.E.C. Banca Nazionale dell'Economia Cooperativa) nei confronti dell'Amministrazione Straordinaria di Alfa s.p.a. in persona dei Commissari Liquidatori avverso la sentenza n.1457/04 resa inter partes dal Tribunale di Bologna in data 30-3/13-5-2004, ogni ulteriore o diversa istanza disattesa,

- Rigetta l'appello e conferma l'impugnata sentenza;

- Condanna ** Banca s.p.a. a rifondere alla controparte le spese del presente grado che liquida in complessivi € 26.420,04 di cui € 250,04 per spese, € 4.170,00 per competenze ed € 22.000,00 per onorari oltre rimborso forfetario spese generali, CPA ed IVA.

Bologna 17-11-2006

Depositata in Cancelleria il 24 GEN 2007